martedì 29 gennaio 2013

Recensione di Massimo Seriacopi su "Rom (uomo)"

LORIS FERRI, Rom (uomo). Ascoli Piceno, Sigismundus Editrice, 2012, pp. 120


Se Pasolini aveva preso spunto dalle ceneri di Gramsci per cantare l’epopea del nostro tempo, della nostra società, qui, come se venisse fruttuosamente sviluppata la sua lezione, da altre ceneri, da un altro senso dell’epica si prende lo spunto per cantare una tragedia epocale.
  Connessa anche, ma non solo, a sottesi avvenimenti storici a cui si fa riferimento, è un’intera mentalità (e un “blocco mentale” che fa diventare valida un’unica prospettiva e visuale diventa elemento di discussione), che viene dolorosamente ma coraggiosamente messa in versi; la tragedia epocale a cui si accennava comporta anche il modo in cui viene percepita e giudicata l’epopea di un popolo o di un insieme di persone disperse e perseguitate, non accettate (forse non accettabili, per popolazioni stanziali e con un’identità nazionale storicamente “certificata”?).
  Sono tredici brevi poemetti o capitoli (in quartine di versi di varia misura, spesso fuori da schemi metrici tradizionali, ma non privi di musicalità e vigore) a scandire l’evocazione (una sorta di “romanzo poetico”), la chiamata in causa di ciò che ha marchiato a fuoco e continua a lasciare cicatrici nelle terre balcaniche e nelle persone che le attraversano e le vivono; ma la testimonianza stessa dell’autore, che di questi elementi fa sostanza per la propria espressione poetica, inevitabilmente trasformano queste cicatrici ed esperienze di vita nelle sue e nelle nostre ferite, in straniamenti rispetto alle percorrenze di vita consuete, solidificate e rassicuranti, costringendo con delicato fervore a una riflessione mai banale, anche in virtù di una raffinata scelta linguistica che spesso introduce selezionati termini appartenenti a vari popoli ed etnie che da millenni forse migrano da Est verso Ovest, o da un punto cardinale all’altro, come se davvero viaggiassero per la sola ragione del viaggio in sé, non costretti dall’ordinata esistenza alla quale il mondo occidentale è invece così abituata.
  La trasposizione di uno degli eroi più antichi dell’epica occidentale, Ulisse, sembra essere la base per presentare l’io narrante di Havro (come si avverte nella Legenda, diminutivo del nome Havrah, che significa “Il viaggiatore”); la sua attuale odissea ci trasporta attraverso Il sogno, che è il titolo del primo capitolo e un’altra tematica letteraria ed esistenziale ricorrente; si tratta di un canto dolente su una terra dilaniata da abbandonare, che sembra cercare di allontanarci come se fossimo feti da abortire, ma che è anche intessuta di nostalgica dolcezza, nella sua povertà straziata e straziante: Qua ora, tra fango, fuoco e il canto/ di una zingara, dimoriamo sulla terra/ a contemplare un lungo vespro che risplende/ sotto un cielo slavo, terso, fra le tenebre/ su cui l’ansia degli affanni si è placata/ per elevare una dimora nel petto, che sorprende…// Lungo questa calda notte infinita e vana,/ nel cielo oscuro e incerto degli zingari/ e clandestini, questo caldo nido ci avvolge/ come una madre di stracci… (p. 11).
  Ripercorrendo le varie parti di cui si sostanzia poi l’opera, tra le quali spiccano (ma non isolate) Sulle sponde della Drava, Rapsodie zigane, Il viale dei ciliegi, si può notare uno sviluppo della tematica esistenziale che riafferma la necessità di riflessione sulla condizione umana: E voi uomini, così fedeli a voi stessi,/ ma noi, viandanti leggeri e piangenti,/ differenti ogni giorno che passa,// che a bocca aperta, nel destino profondo/ come una dalia nera, sulla terra di Slavia,/ agli occhi follemente si apre, a noi, Havro!,/ che con innocenza sogniamo il mondo,// e il mondo in noi esiste solo sognando”… (p. 47);
e particolarmente intensa risulta la rammemorazione dell’unione tra protagonista e controparte femminile:
Ci stringemmo come rami spogli, lasciando/ le nostre piccole trame irrisorie e nude/ alla luna, le palpebre affondando/ vive, nelle viscere abissali dell’anima;// e tutte le paure e le ansie di un viaggio/ solo nostro nella vita, i timori, i dubbi,/ ogni desiderio che sbatte alle porte del cranio,/ solcando le sponde di un’eterna passione,// i demoni del passato, ogni sentimento,/ tutto lasciato sulla soglia delle labbra di Marika…/ Quello fu il momento in cui divenni uomo,/ quello fu il momento in cui divenni “rom”… (p. 60).
  Sessanta croci nel vento, settima parte del romance in versi di Ferri, una delle più intense (e dolenti) dell’intera opera, prende invece come punto di partenza una lettera dello zio Lùkas, una figura sostitutiva di quella, poco valida, paterna, punto di riferimento per il giovane errante e denunciatore di una situazione disumana: Alle nere porte delle case bussando/ umilmente come gli apostoli della rovina,/ umilmente
e disperati avvinti, crollando/ sotto i colpi di un potere funebre, l’epoca// la libertà ha macinato come un seme/ di grano, l’elemosina macina la povertà,/ il dubbio e l’eterna paura; si è spenta/ la mandola dei rom, si è spenta, ora geme// persa nell’oblio […] l’elemosina è amara!, manca l’acqua/ eppure sulle carovane si elevano i ripetitori,/ l’elemosina è ora così dolcemente/ amara, il sacro a braccetto col profano […] (p. 63).
  Sangue sul sangue versato, Terre di confine, Il lato oscuro e Zingaresca sono tra i capitoli più incisivi (anche se l’opera va considerata, e apprezzata, nella sua consequenziale interezza) a segnare altre tappe del viaggio nel mondo e nell’uomo, per poi confluire ne La caduta degli Angeli, tredicesima e ultima sezione in cui, come dice il verso (meglio, l’emistichio) d’apertura, Lenta cigola la memoria, riporta al viaggio in cui si è “addensata l’ombra” sulla tomba della mia giovinezza, viene ricordato.
  Davvero la visione della sofferenza invecchia; non si capisce se perché ci fa più saggi, o solo più coscienti dell’insensatezza della guerra tra uomini, tra etnie, tra persone tutte ugualmente dilaniate dalla fatica di esistere, e di vivere davvero, che tanto più vantaggio trarrebbero dall’allearsi con un moto di solidarietà contro paure e difficoltà, come ben ricordava Leopardi nel suo testamento poetico.
  Altrimenti queste sono le conseguenze: Sotto funebri venti l’Europa tombale/ nel baratro precipita annaspando,/ sino al fondo di questa terra siderale,/ su cui nuovi e fragili segni balenano// di un’antica umanità piegata e sepolta/ sotto le macerie […] (p. 109).
  Come può una persona non sentire, a confronto con un’umanità piegata e sepolta sotto le macerie, che l’Europa nella quale abita ha un aspetto tombale, che la sua giovinezza stesa è sepolta sotto una tomba? È il senso di responsabilità che il poeta si assume, che lo impegna a gridare la denuncia dell’orrore che vede, a dare senso al suo canto dolente, ma non per questo meno robusto, con radici antiche e solide come quercia che in uno stesso terreno affonda e trae nutrimento, perché uomo, e agli altri uomini, a tutti gli altri uomini, è collegato, di se e degli altri soggetto responsabile e bisognoso di una Maturità che della solidarietà non può non sostanziarsi.
  [Massimo Seriacopi]



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