martedì 27 gennaio 2009

VOCI (FUORI) DAL CHORUS





La letteratura è sempre qualcos’altro. È la linea d’ombra per eccellenza: secolarizzata, sclerotizzata, inviluppata nei meandri del senso, richiama tuttavia ad un suo fuori, ad un suo eccesso classicamente interno. Richiama nel suo voler essere dura e pura, innocente e cristallina, tutti i paradossi e le cesure della poesia, ovvero di quella categoria dell’esistente tanto aleatoria quanto divinatoria. Illuminante. Bruciante. Senza teorici e pratici orpelli.

Seguendo allora questa spinta si segnalano, dallo straordinario volume di lavoro della rivista Chorus, una costellazione, tre uscite trasversali, e tuttavia tangenti per molti aspetti al lavoro editoriale e culturale del progetto: Celia Misteriosa, in due variazioni e La convocazione.

Celia Misteriosa è un libro “segreto”, versi e incisi a firma di Federico Nicolao, diviso in due: una versione in lingua italiana, con i disegni di Laura Erber, scrittrice, film-maker e performer brasiliana (
http://lauraerber.googlepages.com/lauraerber) e una versione in francese con i disegni dell’artista Koo Jeong-A; e in ogni caso disegni sempre stupendi nella loro stilizzata reverîe d’infanzia, tra pietrisco, meduse e figure proto-marine le immagini delle Erber e in un mix di delicatezza del tatto e studio micro-figurativo le immagini di Koo Jeong-A.
Ma veniamo allora al vento di parole.
Laddove il verso si fa senso, tutto il resto è nulla. Il mare aperto, la marea, una nuova acqua. Così allora si plasma nelle parole la “celia” del titolo: un invito a mantenere vivo l’alone del mistero, il non detto, la velatura continua sulla luce, sulla materia, sui corpi, sui colori, sugli odori. Tutto, come se si parlasse ad un interlocutore immaginario, un “tu” intimo, rigorosamente poetico ma tanto da essere un anacronismo per il tono che assume, rispetto all’oggi: tanto da far supporre che questo vuoto quotidiano sarà ricamo solo in un avvenire dove si saprà godere delle proprie mancanze.

La convocazione è invece un libro a più firme: Federico Ferrari, Tomas Maia e Federico Nicolao. Un testo in originale apparso nel numero 15 della rivista Les cahiers intempestifs, (dicembre 2002), pubblicata a Saint-Etienne, disponibile sul sito
http://www.cahiers-intempestifs.com.
Come scrivono gli autori, questo testo nasce come una specie di eco a un articolo di Jean-Luc Nancy, inizialmente pubblicato dal quotidiano Libération dal titolo La voix qui a manqué: ma, come ancora sottolineano Ferrari, Maia e Nicolao, questo testo è solo una risposta provvisoria alla questione della “politica”: ‹‹permanendo la base di un progetto di libro che si concretizzerà nei prossimi anni››.
Ciò nonostante, è ora un libro: un atto, un augurio. O meglio, nietzschianamente, una volontà e una promessa. In uno stile e una scrittura squisitamente e classicamente, oramai, nella più piena tradizione della moderna stilistica filosofica, le voci che qui parlano si riuniscono nella medesima parola comune: convocazione. Convocazione come parola dell’avvenire della politica e della politica dell’avvenire.
Ma a loro la scena della pagina…

La “convocazione” è il nome risolutamente areligioso del politico. Poiché quel che nomina è il concatenarsi transitorio e transitivo della praxis politica: si convoca – ed è, per definizione stessa dell’atto di convocare, sempre in maniera imperativa – un’assemblea, un comitato, un consiglio, un gruppo per tal luogo e tale data. Ora il potere di quel che si convoca non deve sussistere al di là dello spazio-tempo che segnala il punto di convocazione. La democrazia è questo potere puntuale che si esercita e con lo stesso movimento si disfa. L’esercizio della democrazia è scandito dalla convocazione.

Per le informazioni sui libri in questione, e sul lavoro della rivista-laboratorio Chorus, una costellazione, ecco i due indirizzi web di riferimento:
www.chorusday.com e info@nicolao.org

Gianluca Pulsoni

lunedì 19 gennaio 2009

PHILIPPE DUBOIS - L'ATTO FOTOGRAFICO

Il blog come luogo estemporaneo. Voce espressa nel vuoto dell’incontro casuale.
Premessa breve e forse superflua ma legata alle modalità con le quali utilizzerò questo spazio. Senza scadenze mi riprometto, infatti, di proporre testi letti, suggeriti e subiti intorno alle tematiche dell’arte, evidenziandone i nuclei principali, evitando la recensione o l’articolo d’approfondimento. Il blog come vetrina per libri utili alla riflessione su problematiche e aspetti della comunicazione artistica.
Ad aprire questo spazio è “L’atto fotografico”, di Philippe Dubois, un testo che partendo dalle basi teoriche gettate da Roland Barthes in “La camera chiara”, amplia il discorso sul mezzo fotografico anche alla pittura, non per ricercare la superiorità di una sull’altra, questione sterile e inattuale, quanto impostando un ragionamento dialettico capace di individuare le specificità proprie di questi due mezzi artistici.
Ricollegandosi al concetto barthesiano di fotografia come memento mori, Dubois paragona l’atto fotografico allo sguardo pietrificante di Medusa: "Si abbandona il tempo cronico, reale, evolutivo, il tempo che passa come un fiume, il nostro tempo di esseri umani inscritti nella durata, per entrare in una nuova temporalità, separata e simbolica, quella della foto: temporalità che, anch’essa, dura ed è tanto infinita (in principio) quanto la prima, ma infinita nell’immobilità totale, fissata nell’interminabile durata delle statue. […] La foto letteralmente ghiaccia di terrore. Vi si ritrova, ancora una volta, la famosa figura di Medusa" [1]. Una paralisi del soggetto che si pone allo sguardo dell’osservatore come immagine fossilizzata, palesandosi costantemente nella propria assenza.
Lo spazio della fotografia appare colmo e immobile, rispetto allo spazio aperto e mutevole del dipinto, definibile soltanto a lavoro ultimato; la foto è sempre traccia dell’oggetto che raffigura, ne porta addosso i segni, le impressioni stratificate sulla pellicola, ed è perciò delimitata a quella porzione di mondo che l’obiettivo riesce ad inquadrare, è un occhio fisso, per quanto veloce possa essere: "Il principio della “genesi automatica” che fonde lo “statuto” della fotografia come impronta, secondo il quale il “reale” lascia un’impronta sulla piastra sensibile, questo principio deve essere chiaramente delimitato e posto al suo giusto livello, vale a dire come un semplice momento…" [2].
La pittura, al contrario, è retta da un principio di "variazione "discontinua"" [3], grazie alla sua caratteristica di auto-ridefinirsi durante la propria genesi, nel suo farsi, spostandosi dal dato oggettivo della foto, a quello delle possibilità. Se la foto sospende nell’immobilità il tempo reale, la pittura "capta il tempo a ciascun colpo di pennello e il quadro, teoricamente, non è mai finito, terminato, immobilizzato in uno stato determinato. Interminabile lavoro della pittura. Immobilismo istantaneo e tagliente della fotografia" [4].
Portando un ragionamento tale dalla teoria alla pratica artistica, si compie inevitabilmente una scelta forte, cosciente delle specificità del mezzo fotografico rispetto a quelle della pittura; Dubois troverà così negli scatti di Diane Arbus, nella loro immobilità artefatta, ricercata e voluta, l’anima stessa della fotografia: "è attraverso l’artefatto, assunto come tale, della posa che i soggetti esplicitano la loro realtà intrinseca, "più vera della natura"" [5]. Una scelta che si contrappone alla poetica dello scatto rubato tipica di Henri Cartier-Bresson: "Contro l’immagine rubata, Arbus contrappone l’immagine preparata, costruita. Contro la spontaneità, la posa. Contro il caso, la volontà e la scelta. E’ attraverso l’immagine plastica, che essi vogliono dare di essi stessi e che l’artista li porta a produrre, che si rivela la “verità”, l’”autenticità” dei personaggi d’Arbus. Ecco lo spostamento: l’interiorizzazione del realismo mediante la trascendenza del codice stesso" [6]. Nella fissità esasperata, il mezzo fotografico oltre ad esporre un soggetto, espone se stesso, la propria intima natura, e l’osservatore non potrà far altro che pietrificarsi a sua volta, davanti a tale evidenza.

Daniele De Angelis


Philippe Dubois, L’atto fotografico, ed. it. Quattroventi, Urbino 1996

[1] pp.156-157
[2] p.87
[3] p.102
[4] p.156
[5] p.46
[6] ibid.

venerdì 16 gennaio 2009

OBAMISMO E SINISTRA: DUE NUOVE DAL WEB

Il nostro collaboratore Umberto Pascali, scrive su "obamismo" e "strategia Brzezinski" su "La voce delle voci": http://www.lavocedellevoci.it/inchieste1.php?id=187

Uno scambio epistolare tra Ilaria Mascetti, del direttivo del PRC di Ascoli Piceno, e Davide Nota, su ideologia, poesia e trasformazione della sinistra italiana:
http://www.davidenota.splinder.com/post/19542351/Lettera+ad+Ilaria.+Cosa+vuol+d

mercoledì 14 gennaio 2009

LA PAROLA E LE COSE

Promessa di un nuovo parlatorio

Nuovo anno, nuovo stacco, nuovo slancio. Dopo alcuni anni di arrembaggio mobile e grintoso sui nuovi argomenti da fare nostri, la poesia, l’eresia, la politica, dopo la “presa” di una piattaforma stabile – un teatro, piuttosto una città, una lontana provincia dell’impero sempre più distante, incubo, eco di un sogno kafkiano – come può essere un sito, ci spingiamo ad aprire un parlatorio. Una piazza all’incrocio di alcune strade che abbiamo finora percorso. All’incrocio, anche, di venti contrari.
È stata un’esigenza, e come tale auspicata da tutti ma mediata molto a lungo: nei suoi rischi, nei suoi perché.
Ma alla fine hanno prevalso le ragioni di tutti, le ragioni del nuovo: della logica dello “stacco” e della sperimentazione.
Questo perché è nostra ferma intenzione far rimanere La Gru come sito di ricerca e rigore inesorabile. E per far questo, sentendo l’esigenza del capire dal vero che cos’è il contemporaneo, abbiamo pensato all’importanza di un “muro dei segni”: una bacheca, un blog. Per la necessità filologica di essere, prima che stalker delle verità, sismografi delle scosse del presente. Qui, in Italia e altrove.
E ciò vuol dire: essere ricettivi con eventi, manifestazioni, fatti, incontri, iniziative, segnalazioni, opere, atti, parole, voci, colori etc. che sentiremo vivi e impagabili – fuori dalla logica dello “scambio”, persino se “simbolico” – che enunceremo noi o che ci comunicheranno altri. Per farli rimbalzare altrove con una nuova tonalità.
Sarà allora una bacheca di aggiornamenti: una bacheca che se si espone come discontinuità nei confronti di un nostro passato modo di operare – apriremo ai commenti ai veri articoli – per sondare una necessità di contatto, d’altro lato invece si pone come continuità nei confronti del nostro lavoro di sempre. Perché ciò che verrà sarà costante e inconscio frutto dell’humus che il lavoro de La Gru, nella rivista, avrà seminato.
Sito e blog allora saranno due metafore per indicare il medesimo, il progetto. Un progetto aperto.
Sito e blog allora come le polarità elettriche di un doppio sguardo da “caricare” nelle immagini del presente che speriamo di poter incastonare in questa nuova avventura.
Crediamo fermamente che l’idea di aprire uno spazio così sia salutare: continui e espliciti al meglio la nostra volontà di contagio con il presente, ma in maniera tale da essere alieni a qualsiasi tentazione di “marcatura” stretta dell’ideologia castrante in tutte le sue apparizioni.
Infatti diverrà subito chiaro che questo blog non sarà né un doppio retorico della rivista né una concessione all’auto-celebrazione, né nostra, né magari fattaci da amici e lettori. Non siamo per il riconoscimento, non bisogna essere per il riconoscimento: l’apertura all’ altro significa “essere con” l’altro, non essere per l’altro, o essere noi contro l’altro.
Essere con l’altro come unica forma, unico incunabolo per lavorare finalmente nel silenzio dell’atto.
Per continuare la pratica e il discorso della nostra “parola” – la poesia e la cultura – e per avvicinare e mettere a fuoco “le cose”. Per fare questo, si, per questo faremo tutto. Non ci sarà alcun intervallo né pausa.
Perché, in fondo, che cos’è la vita se non questo: un po’ di intensità. Un po’ di intensità prima che sia troppo tardi…

Gianluca Pulsoni