lunedì 20 aprile 2009

(CATTIVE) MEMORIE DA SOTTOTERRA...






Antonio Moresco
"Lettere a nessuno"
Einaudi, Torino 2008, pp. 728

[di Maurizio Inchingoli]



Che cos'è l'io? Che cos'è la voce? Sono la stessa cosa? Perchè - ad esempio - di certi scrittori mi arriva l'io ma non mi arriva la voce? A volte mi sembra che anche quella cosa che è stata chiamata "io" faccia diaframma alla voce, che parte da zone più profonde e allagate, oltre il piccolo gioco dell'io e del suo contrario. Che per dare spazio alla voce occorra separarsi anche da quel diaframma interpretativo che è stato chiamato "io" per entrare in un'intimità più profonda e senza ritorno. Non per andare verso l'altrettanto artificiale mistificazione del mondo visibile intellettualizzato, ma per infilare come una freccia, ancora, ancora, ancora la cruna della faglia sempre sul punto di chiudersi.

Alfredino Rampi sotto terra, a un lombrico:
- Non posso diventare un lombrico anch'io?
- Mah, non saprei, ci vuole del tempo...
- Ah, si, tu ci hai messo tanto?
- Sì.
- Quanto ci hai messo?
- Be', non saprei... qualche milione di anni.



Una scoperta, una sorprendente discesa nel più recondito anfratto della conoscenza. Come quando si vede la luce per la prima volta, come i lombrichi che lavorano incessantemente la terra, o si torna a vivere una vita degna di essere definita tale. Dopo essere stato per molto, troppo tempo sotto terra, o sott'acqua, come in apnea, Antonio Moresco torna a respirare - e noi, forse, insieme a lui - a tirare fuori la testa, con gli schizzi dell'acqua che ci piovono addosso copiosi e freddi, come a svelare e squarciare definitivamente il velo di ipocrisia che aleggiava certamente su una larga parte dell'industria culturale italiana con cui l'incazzato autore, originario di Mantova, ha dovuto combattere strenuamente.
Incipit:

"Mi sono svegliato per non morire."

Ci racconta nel farsi iniziale di queste disperate ma dignitose lettere a nessuno; titolo affascinante, criptico, volutamente arricciato su sè stesso, come a voler ribadire una paradossale ed estranea lotta contro i mulini a vento di donchisciottesca memoria. Scrivere a sè stessi, lucidamente, per ricordarsi quello che si è, perchè l'interlocutore è quasi sempre assente, muto, lontano. In questo caso anche, ed a volte ignaro quasi della lotta per la vita di Moresco, ma tutto sommato privatamente conscio e complice di una programmatica guerra a braccia aperte per non far affiorare il talento della scrittura visiva e concentrica dell'autore di "Canti del Caos" e de "La Cipolla", così ben metaforizzato nella citazione della agghiacciante favola horror dei fratelli Andersen, nella quale un bambino sepolto che torna a vivere tenta invano col braccino di rivedere la luce, ma lo spingono a rimanere sottoterra, e muore inevitabilmente soffocato.
Il tentativo di "Lettere a nessuno" è quello, riuscito felicemente, di segnare una lunga traiettoria, mettere un po' d'ordine tra la memoria celata e tutta personale del nostro, nell'attraversamento di una fase storica di fine secolo/millennio travagliata ed altamente problematica, che Moresco descrive con una precisione spaventosa. Citando episodi al limite dell'incredibile, come gli omertosi comportamenti tenuti da parte di gente che dovrebbe essere invece per prima interessata al talento ed alla scoperta di voci fuori dal coro. Ma evidentemente questo è solo uno sporco equivoco, e Moresco non lo nasconde, anzi ne rafforza coraggiosamente la teoria, mettendo alla luce uno scenario meschino a volte, incredibile quasi ripetiamo, di fatto atterrito dalla grandezza autoriale e morale, sotterranea e testimoniale dell'autore lombardo. Fa paura che una persona che ha conosciuto da dentro il movimento intellettuale, ma anche operaio e di lotta degli anni '70 e '80, possa diventare col tempo un validissimo scrittore senza peli sulla lingua, un'autore osceno, nel senso beniano del termine di o-skenè, fuori scena, fuori dalle regole - ma solo quelle stabilite dallo status quo ufficiale - che parla senza peli sulla lingua dei dietro le quinte di quel periodo travagliato e mette a nudo, letteralmente, le dinamiche di acquisto del potere da subito dominate da alcuni dei protagonisti di queste illuminanti e tristi vicende di vita. Tanti sarebbero gli episodi da citare, lo ripetiamo, ma non è solo questo quello che conta. L'importante è riconoscere a Moresco la statura autoriale che gli si confà, e con tutti gli onori del caso, senza arrivare a premi di facciata, ma mettendo in risalto la bravura e la qualità di scrittura che è la caratteristica primaria di uno dei più importanti scrittori della fine del '900 europeo insieme a pochi altri degni di questo immaginario Pantheon. Inutile e sciocco perciò fare dei nomi, la cosa più importante è che al momento uno come Moresco ci stia tutto, certamente non imbalsamato e celebrato come ad un funerale, ma semplicemente e senza ipocrisie, per soddisfare il suo ego, ed il nostro, colpito da queste settecento vitali pagine che fungono da spartiacque per la cultura letteraria italiana tutta. Un giusto riconoscimento ad una persona che ha conosciuto la fame, la sofferenza, il dolore, e se ne è affrancato con la sola forza di volontà e con l'aiuto di pochissimi esseri umani ancora in grado di distinguere la terra dalla merda, in un difficilissimo lavoro di indubbio coraggio intellettuale. In una nazione piccola come il belpaese, definito in questo lungo resoconto nella maniera più complessa e semplice allo stesso tempo che si potesse mai immaginare.

"L'Italia è un paese frivolo e nello stesso tempo protervo. Esso non pare avere né il dono della vera leggerezza né quello della profondità."

E sono riflessioni amare come queste che ci fanno avvicinare con un sorriso complice alle storie di questo manovale della scrittura, armato di carta e penna, come un muratore della cazzuola e del metro per prendere le misure a questa società tanto vuota e dell'apparenza spinta alle estreme, mortali conseguenze; una società muta, sorda, senza memoria, capace di navigare nella merda come un pupazzo con le narici cancellate dal tempo, assuefatto quasi irrimediabilmente all'olezzo di cui si inebria senza sosta, nell'attesa di fantomatici tempi migliori che mai arriveranno. E' arrivato quindi il momento del qui e ora ci avverte Moresco: basta aspettare infausti eventi per risollevare il paese, basta sperare in un messia qualsiasi, capace di vendere lavatrici come pure di acquistare case editrici e propinarci libri o programmi finto culturali. L'industria culturale invece, come la chiama efficacemente Moresco, ha bisogno di una terapia d'urto più rumorosa di un terremoto, in un impeto di vitalità che mal si addice alla pigrizia mentale di tanti advisor delle case editrici subito pronte a codificare, catalogare e inondare le teste pensanti, come una mano che ti battezza a morto e ti tiene in vita dall'alto del suo piccolo scranno. Siamo quasi come in un laghetto di allevamento con i girini che aspettano di crescere, ma la selezione controllata da pochi non permette a tutti di esprimere la propria personale visione delle cose. Troppo pericolosa, troppo insinuante la voce e lo status di uomo di Antonio Moresco. Semmai attuiamo una strategia silenziosa e logorante: prendiamolo pure per il culo, facciamogli credere che possa essere uno dei nostri, poi lo affoghiamo, solo per il gusto di vederlo agonizzante. Peccato che il suddetto sappia benissimo di quella cosa che si chiama lotta per la sopravvivenza, e quindi è impossibile vederlo crepare. La lotta per essere è di pochi a questo mondo; tutti gli altri possono stare sereni, non soffriranno, potranno dormire sonni tranquilli, nella bambagia, ma con una caratteristica che li segnerà per tutta la vita: la mancanza di dignità, e soprattutto di coglioni. Le amebe e i girini rimarranno tali; i ranocchi invece, noncuranti dell'allevatore, salteranno quando meno ve lo aspettate, il fosso e, girandosi verso di loro gli faranno marameo. Badate bene, non è una gara questa: è soltanto la sacrosanta lotta per esprimere la bellezza dell'uomo, perchè - credetemi - di brutture e merda, di fogne, ne è già traboccante il mondo... E Moresco non ha certamente bisogno di difensori d'ufficio, ma deve però sapere che al mondo c'è ancora qualcuno che non ci stà a farsi mettere sotto per quattro soldi in più, perchè si può vivere stoicamente in maniera decente e dignitosa anche esprimendo le proprie opinioni senza passare per squallidi programmi in prima serata a consigliare libri per le feste di Natale.
Grazie Antonio per queste pagine necessarie. Grazie anche a nome di tutti quegli invertebrati che popolano numerosi questa triste terra. Un giorno, forse, anche loro te ne saranno grati, quando ammetteranno di essere stati solo delle merdacce di fantozziana memoria. Chi se ne frega di quello che pensano i pensatori dell'ufficialità culturale: a noi interessa essere solo vivi, gli zombie hanno già fortemente colonizzato ed infettato il mondo, ce lo diceva chiaramente tanti anni fa un certo George Romero nei suoi un po' ingenui ma strepitosi films. A noi dunque il compito di disinfestare e bonificare il terreno, per renderlo ancora fertile. Queste lettere a nessuno come il testamento di una salvifica cultura della giustezza e della pacificazione; a futura memoria...

"L'umiltà, la radicalità, la fedeltà, la tenuta, la pazienza, lo spirito di sacrificio, l'intransigenza, la vera spregiudicatezza e passione, la capacità di soffrire e di dare frutto, di rischiare tutto anche a costo di perdere tutto."

Parole sante, finalmente...

1 commento:

  1. COSÌ APERTI, COSÌ CHIUSI-
    …il mio passo è testo dedicato
    a tutti i minatori in spinta…


    Giace l’utile canto/
    Del lavoro in miniera/
    E sul cielo rosso in letargo/
    Le colline/
    Screpolavano in rapide/
    E il tramonto/
    Con tutti i suoi fantasmi/
    Si attrezzava/
    In fretta/
    Immerso negli occhi lucidi/
    E scosso da una fetta di Mondo/
    Addentato/
    Dal peso della fatica./
    Il ricco minatore/
    Ama il carbone nella sua faccia/
    Ama il bianco del suo lenzuolo/
    Cala il caldo sudario/
    E le sue scarpe/
    Allacciano di stelle./
    Giace l’utile canto/
    Del lavoro in miniera/
    E sul cielo rosso in letargo/
    Le colline/
    Balbettano sale di sole nero…/
    È alta la spinta è sceso il gruppo./


    Da “Il cuore degli Angeli”
    di Maurizio Spagna
    www.ilrotoversi.com
    info@ilrotoversi.com
    L’ideatore
    paroliere, scrittore e poeta al leggìo-

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