sabato 21 febbraio 2009

ARMELLE LUNAIRE



Nota introduttiva ad Armelle Dumoulin


Polmoni aperti, voce cristallina, sangue caldo. E poesia ispirata a dovere. Voilà Armelle. Una sorpresa, ma se vogliamo essere sinceri, una vera e propria autrice, tra musica, poesia e teatralità, su cui abbiamo il piacere di soffermarci, grazie alla segnalazione degli amici di Chorus, in queste brevi riflessioni, ma su cui presto si ritornerà a scrivere, con un respiro più ampio e articolato.

Armelle Dumoulin è una scrittrice e cantante francese, che vive e lavora a Parigi, attiva ormai dal 2000, quando a 22 anni arriva nella capitale transalpina e da lì in poi inizierà a pensare e pesare le sue idee teatrali fondando l’Incroyable Théâtre Verbal. Da qui in poi sarà sempre attrice, il suo primo coté.
O, se si vuole, il suo primo beat.

Inizia così le prime scritture e le prime apparizioni teatrali che si intensificheranno sempre più: scrive due testi, Où vas-tu (monologo) e La la la la la la la la; debutta come attrice in spettacoli per l’infanzia – Arthur le pêcheur de chaussures, con Christian Paccoud; in spettacoli su testi contemporanei – Des baleines sur la seine di Emmanuel Dupuis; regista teatrale per il festival di Langlade, che frequenta costantemente in qualità di artefice (2005) e altro, altro ancora.
E, viste le qualità, media di nome e rispetto come France Inter, France Culture e Radio Nova iniziano ad interessarsi alla sua “figura”.
Ma lo spiazzamento – lo si può intuire come il più classico dei coup de théâtre – è dietro l’angolo…

Pourquoi la brume? Pourquoi de la brume maintenant? “Parce que tu es trop laid à nos yeux”, répondirent-ils. Vous vous trompez depuis le début ! Moi, je n’avais rien demandé ! J’ai seulement trouvé la parade de l’assis! Et je ne suis pas laid, ça fait un bon moment que je surnage, je suis un bon chien, non, je suis meilleurs qu’un chien alors pourquoi de la brume manitenant, je vous le demande ! Et je ne suis pas laid, je ne suis pas là !



© Dide 2008

© Dide 2008


© Dide 2008

Dal 2004 in poi invece alcuni fondamentali incontri la portano a compiere una consequenziale virata verso l’arte dei suoni: Alexandre Leitao, fisarmonicista, col quale farà nel 2004 proprio un tour in cui musica e poesia saranno in alternanza costante, tra canzoni, frammenti, prose altri componimenti melodici; Antoine Sahler, tastierista, che si unisce al duo, nel 2007.
E col duo, con l’aggiunta di Joe Quitzke alla batteria, registra proprio un anno fa (febbraio 2008) “cinque pezzi facili” come demo del suo primo disco: Armelle Dumoulin et les plombiers du réel. E, attualmente, il completamento proprio di questo progetto, con la registrazione di altri brani.

Armelle dunque tra teatro e musica. E il tramite – si sa – è la parola. Giocata musicalmente, elasticamente, foneticamente, ritmicamente, melodicamente, poeticamente, sonoramente, bruscamente, sordamente… contro la linearità. Di dover portare un solo significato, un solo tema, un solo senso.

In questi brani succede come nel grande teatro di Velère Novarina: si trovano nascosti segni di sensibili di alterità… sotto sotto, forse, in un “divenire animale”…

Non tagliare e ritagliare tutto in pezzi intelligenti, in parti intellegibili – come vuole la solita dizione del francese d’oggi, dove il lavoro dell’attore consiste nel tagliare il testo come un salame, nel sottolineare alcune parole, caricandole d’intenzione, ripetendo insomma l’esercizio di segmentazione della parola che si impara a scuola: frase smembrata in soggetto-verbo-complemento oggetto. Dove il gioco consiste nel cercare il vocabolo importante, nel sottolineare un membro della frase per mostrarsi un buon allievo intelligente – allorché, allorché, allorché la parola forma semmai una specie di tubo d’aria, un condotto a sfinteri, un tubo di scappamento regolare, a spasmi, a valvole, a getti interrotti, a fuga, a pressione.
Dov’è il cuore di tutto questo? È il cuore che pompa, che fa circolare tutto?... Il cuore di tutto è in fondo al ventre, nei muscoli del ventre. Sono proprio i muscoli del ventre che, spingendo intestini o polmoni, ci aiutano a defecare o a potenziare la parola. Non bisogna fare i furbi, ma mettere ventre, denti, mascelle al lavoro[1].


Così la “scrittura vocale” diventa quel passaggio obbligato che avvicina i segni della lingua alla carne, all’ umano troppo umano che oggi è visto come alienazione, difformità, o alla peggio anacronismo, spavalderia.
Mentre è solo vita, desiderio di danza, di canto, di depensamento! La la la la la la la la!
Da Rossini in poi, la musica vive di questo unico grande amore.

In questa raccolta i brani, Tache de vin, Les graviers, La chambre, Et nous au beau milieu, Gésir dans l’herbe i vari arrangiamenti e il dialogo tra musica e parole produce sempre la stessa risonanza-refrain : c’è poco da fare, la voce di Armelle svetta. La musica è suo ornamento. Con varie timbriche – dal melodico e armonioso di Et nous au beau milieu al forsennato finale di La chambre – ma sempre con una stessa vibrazione, una intensità che resiste a tutti i funambolismi vocali e ritmici.
E questa vibrazione, se sonoramente è dolce, concettualmente è dura. Non fa sconti. È un vero e proprio imprinting.

La bellezza di questi brani è poi profonda: non solo stilisticamente, per la strutture rigide ma aperte dei brani, la qualità musicale del ritmo di ogni singolo brano, che straripa spesso di assonanze, ma anche per i temi. Perché qui si tocca la poesia, o almeno, la sua necessità. Perché l’intimismo dell’ io alla fine è solo “monade” tra “monadi”: l’io è attraversato da varie scosse elettriche, il surrealismo, l’erotismo, il realismo. Come nella lezione di Michaux.

J’ai cassé mon porte-voix/ Il fonctionnait contre moi/ Selon l’avis des élites/ Ma cervelle est illecite

Armelle Dumoulin, signori e signore, è una funambola e una maschera, un pierrot. Si sente, inconsciamente, intuitivamente, il suo desiderio di trasporre la grande teatralità altrove: nella musica, per esempio, pop o da chansonnier che dir si voglia, nella scrittura, nella voce.
E da l’impressione di essere una di quelle creature che vivono solo la notte, ma solo in particolari condizioni: solo se baciate dalla luce lunare, la luce d’altrove, esse appaiono.

Alors si vous croisez un humain bien/ Dites lui qui Je suis pas bien loin

Il carillion dei pensieri parte… la silhouette della cantante appare… l’eco di una petit musique

IL CORPO È UNA TROTTOLA CHE SALTA TRA I FILI

la luna fa capolino… la nostalgia si colora di magia… la luna, la luna riscalda… la scena s’accende… il corpo è una trottola che salta tra più fili… la scena t’accende… il corpo è una trottola il corpo è una trottola il corpo è una trottola.

QUADRO
LUCE

AZIONE!

Et nous au beau milieu

Gianluca Pulsoni


Info:

Per contatti, acquisti del cd-demo Armelle Dumoulin et les plombiers du réel, informazioni sulla sua produzione e attività concertistica e teatrale, rimando a http://armelledumoulin.free.fr/ e al suo spazio “myspace”, dove sono ascoltabili le tracce del demo.








[1] V. Novarina, All’attore, trad. di Gioia Costa, Pratiche editrice, Parma 1998, p. 8.




mercoledì 18 febbraio 2009

Invito alla lettura di "Petrolio" di Pier Paolo Pasolini

Ripartendo dagli studi di Gian Carlo Ferretti, soprattutto dal suo Pasolini, l'universo orrendo (Editori Riuniti, 1976), si può concludere così: l'eresia di Pasolini è la sua ideologia in atto della "vita contro la storia", è la sua lotta ("furia filosofica" e "indignazione politica") contro il dogma moderno dello sviluppo dell'"universo orrendo" del Nuovo Potere globale e, in definitiva, la sua critica poetica (leopardiana e marxista) dell'economia politica dell'esistente che lo mette a morire, perché Pasolini l'ha "inquadrata" e sta per rivelarla nel suo inedito.
Petrolio (il brogliaccio incompiuto del romanzo postumo, scritto tra il 1972 e il 1975) ne rappresenta in qualche modo la summa, applicata all'Italia del boom, al suo ente petrolifero pubblico (Eni), nella doppia storia di un ingegnere petrolchimico, lo scisso protagonista del romanzo: Carlo (cui Pasolini dà il nome che fu di suo padre). Carlo primo viaggia in Iraq (!), in Medio Oriente, verso Est, alla ricerca del "vello d'oro" che è oggi il petrolio, ricalcando l'antico e mitico viaggio degli Argonauti, ma anche quello moderno e economico-politico dei "condottieri" alla Mattei. Carlo secondo resta invece a Roma, poi a Torino e in Calabria, provando infinite avventure erotiche, che lo conducono a una mutazione finale: la trasformazione in donna, che in realtà poi toccherà a Carlo primo, in un gioco di specchi di identità e dissociazione ossessiva.
Carlo primo scava il petrolio, serve il Potere, è complice delle trame economiche e politiche delittuose, che vanno (nella ripetizione del viaggio petrolchimico di conquista, e del viaggio mitico-onirico, alla Apollonio Rodio, dell'Io) dall'assassinio di Enrico Mattei all'impero di Eugenio Cefis, e che hanno come base l'ambiguità storica della fase resistenziale, in cui maturano i rapporti con gli americani e i servizi segreti, costituendo quel "misto" di "formazione degasperiana e repubblicana", laici/cattolici, su cui Pasolini tanto insiste: fascismo/antifascismo, pubblico/privato, politica/crimine, Sviluppo/Reazione.
L'altro Carlo discende gli inferi paradisiaci della libidine ossessiva omosessuale (e non solo), e forse, mettendo in atto narrativamente la filosofia del gioco della dépense (Georges Bataille), rappresenta la dissipazione polimorfa, di fronte alla figura contraria dell'accumulazione economica di denaro e potere politico. Scava il corpo, l'anomia dell'identità.
Il terzo protagonista è il narratore (e cioè Pasolini stesso, o il suo fantasma) che si salva morendo nel mare di Calabria, ritrovando l'acqua fetale, orfica.

Gianni D'Elia, Il Petrolio delle stragi (Effigie, 2006), pp.20-21

lunedì 16 febbraio 2009

MARCO BERNACCHIA / FRANCESCA GENTILI - MARCHE CENTRO D'ARTE - GALLERIA MARCONI, CUPRA MARITTIMA




Un'opera di Francesca Gentili

Una performance di Marco Bernacchia


dal 22 febbraio al 22 marzo 2009

inaugurazione domenica 22 febbraio ore 18
Galleria Franco Marconi
c.so V. Emanuele, 70 - Cupra Marittima (AP)
Tel +39 0736 778703
galleriamarconi@tiscali.it
www.siscom.it/marconi
aperto tutti i giorni dalle 16:30 alle 20:00
domenica chiuso

Dopo il successo del primo appuntamento di Marche Centro d’Arte, con la collettiva che ha presentato i lavori di Roberto Cicchinè, Daniele Duranti, nardiescopetta e Rita Soccio, alla Galleria Marconi di Cupra Marittima proseguono gli appuntamenti del ciclo sull’arte marchigiana, all’interno della rassegna Gallerista sull’orlo di una crisi di nervi. Marche Centro d’Arte prosegue domenica 22 febbraio alle 18.00 con la doppia personale di Marco Bernacchia e Francesca Gentili, che saranno curati, rispettivamente da Elvira Vannini e Maurizio Coccia. La doppia personale è la seconda tappa di un ciclo di tre mostre dedicate ai fermenti dell’arte marchigiana intitolato: Marche Centro d’Arte. Lo scopo della rassegna è mostrare la vivacità delle produzioni artistiche che ci sono nella regione, una regione in cui convivono pluralità e singolarità, a partire dallo stesso nome, Ogni artista ha una sua peculiarità, che rende interessante il suo percorso di ricerca, una voce che unendosi alle altre, che emergono dal territorio, dà vita a un mosaico ricco vivo e vivace.

“Fotografia, scultura e installazioni ambientali come dispositivi per sondare le zone di interazione tra lo spazio, l’architettura naturale e gli interstizi della realtà, spesso articolati in una dimensione performativa: così si sviluppa la pratica artistica di Marco Bernacchia, intrecciata alla ricerca sonora della scena indipendente che attraversa la sua attività musicale. Le sue installazioni sono quasi degli oggetti d’affezione, degli assemblages innestati con elementi naturali e artificiali in una commistione eterogenea: quasi una post-natura contaminata dal sonoro che si intreccia col dato naturale fino ad assorbirlo. Ogni progetto di Marco Bernacchia che lavora sempre in termini site-specific, assume gli estremi del linguaggio plastico: è micro ma con una declinazione ambientale, è modulare e al tempo stesso non mai è riproducibile. L'impiego del suono come strategia di spazializzazione diventa un processo di appropriazione del tempo, dello spazio, della realtà: la natura è assorbita come ambiente primario mentre amplifica la nostra zona d’ascolto. I prelievi naturali, il verde, le piante, i rami mixati con oggetti defunzionalizzati cambiano il senso delle cose: la post-natura, creata dall’artista, diventa allora una presenza oggettuale, un campo d'azione, reale o immaginario, che può innescare un processo di cambiamento della struttura sociale in una nuova forma di autoproduzione parallela ai circuiti mainstream dell’arte e della scena musicale”. (Elvira Vannini)

“La ricerca di Francesca Gentili si è sviluppata in due direzioni complementari: l’analisi della figura umana e l’esame del linguaggio scelto per rappresentarla, la pittura. Ad una progressiva riduzione formale corrisponde l’affinamento dei mezzi stilistici. Qui la rappresentazione si concentra sugli sguardi. La frontalità dei soggetti conferisce loro solennità ieratica. La figura umana si impone allo spazio. L’atmosfera è asettica e gli sfondi anonimi. Resta lo sguardo. La linearità, ancora animale, dello sguardo. Un misto di natura e sentimento, amplificata dal trattamento pittorico, vibrante, sonoro, dai toni perlacei.
Sono lavori impostati su un riuscito bilanciamento/contrasto di storia e progetto, di austerità iconografica e intensificazione emotiva. Volti assorti, prossimi all’evanescenza; effigi appannate dal tempo. Monito doloroso, presa d’atto di una scadenza irrimediabile”. (Maurizio Coccia)

Gallerista sull’orlo di una crisi di nervi
Che cosa accade quando all’improvviso dalla galleria scompare la bevanda caratteristica, quando si cominciano a cercare bibite alternative, perché nel punto vendita dove ci si rifornisce, quella preferita è scomparsa? Quando il gallerista torna con la spesa e la faccia sconsolata, perché sa che anche stavolta non è riuscito a trovare il ginger. Un senso di vuoto e tristezza riempie la galleria e quanti lì passano anche solo per un saluto cinque minuti di chiacchiere una sigaretta. Intanto il giorno della mostra si avvicina e il panico diventa generale, perché si avverte che senza ginger non sarà la stessa cosa. Una fredda sera di gennaio, però, arriva la soluzione e una bottiglia di ginger acquistata in un altro negozio, frizzante amaro rinfrancante. Allo stress di una mostra, collaboratori di vario tipo aggiungono stress, ritardi, piccole/grandi inefficienze che un povero gallerista si trova a dover affrontare, perdendo i capelli e/o facendosi venire i capelli bianchi. Eccolo buttarsi su massicce dosi di tachipirina per affrontare l’immancabile febbre pre-mostra, mettersi ai fornelli per preparare pasti con innumerevoli portate e quantità capaci di sfamare interi reggimenti, eccolo infine perdere l’attimo atteso ogni giorno come la manna dal cielo: il riposino pomeridiano. Una vita dura fatta dalle piccole insoddisfazioni di ogni giorno e dalle grandi soddisfazioni di ogni mese. Gallerista sull’orlo di una crisi di nervi è l’omaggio a quella cosa bellissima ed entusiasmante che è l’organizzazione di una mostra, cosa bellissima, ma anche snervante e stancante. Ecco che aumenta il numero delle sigarette fumate fuori dalla porta, ecco che i chiodi e le viti si accumulano sul pavimento. Poi si inaugura, si parla, si ride e il giorno dopo si pulisce. Questa è la “tragica” routine che accompagna la vita di un gallerista. Ma non bisogna dimenticare però la bellezza di una mostra, il piacere di una chiacchierata con gli amici, l’emozionarsi sempre nuovo che ripaga da ogni affanno. I rapporti umani, e non solo professionali, con artisti, critici e curatori, sono il vero collante dell’attività e il motore che rende sempre nuova la voglia di andare avanti. Solo un grazie a chi ci permette di poter seguire ed apprezzare il mondo dell’arte nel suo continuo movimento.

sabato 7 febbraio 2009

UN'OPERA PER VOCE: DOMENICO BRANCALE A FANO










QUESTA DEPOSIZIONE RISCHIARA LA TUA ASSENZA
installazione dell’opera per voce di Domenico Brancale

Malformato della voce Domenico Brancale
Sound design Alessandro Gulino


sabato 14 febbraio ore 18.30, perfomance ore 19.00
(nell’ambito della rassegna Ruf Richiamo)
Gasparelli Arte Contemporanea
Via Arco di Augusto 74 – Fano (PU)
Tel +39 340 4751641
info@gasparelli.com - www.gasparelli.com






7 croci di un camposanto lucano, i resti di ciò che fu piantato nel nome della nostra morte. 49 pietre del fiume Agri di questo e un altro fiume dove risuona l’acqua da millenni, scorre e ci vede scorrere, dove siamo rimasti, proprio qui nel solco di una voce, che nessun vento sparpaglia, e nessun vuoto riempie. Sempre una voce deposta sulla pietra. Sempre un silenzio piantato dentro questa croce


La voce è ferma. L’esperienza della poesia di Domenico Brancale sembra sempre vacillare invece di evolversi, si muove per barcollamenti, cadute, strappi e ferite. Ma la voce è ferma. Sempre. Lancinante e ferma. La sua voce non è una voce, ma è una ferita aperta. L’eco di un lamento tanto dignitoso quanto sostanzialmente indecente.
E ora, così cavernosa nel timbro e quindi vuota nella sostanza, risuonante, si confronta ancora di più con la carne dell’essere, l’esperienza della morte. Ma la morte intesa anche come linguaggio e opera. Perché quest’ “opera per voce” altro non è che l’ennesima prova di morte del poeta: come sempre, come è classico. E ora tutto il dettato si eclissa in un buco nero, una croce, simbolo oramai deposto dal suo ruolo di sole, dal suo contesto, l’ossario.
La voce evoca le immagini a sé: simbolo dell’assenza, decanta l’horror vacui, la sfiducia nell’uomo.
Un poeta che manca la sua voce fin dalla nascita chiede l’assoluzione e la condanna.

Catalogo in due fascicoli, uno dedicato al reportage dell’installazione e l’altro sulla poesia di Brancale con scritti di Vito Bonito, Jonny Costantino e Sandro Sproccati, a cura dell’editore CTL-presse di Amburgo con la collaborazione della Galleria Gasparelli Arte Contemporanea di Fano.

Domenico Brancale è nato in Lucania. Ha pubblicato Cani e porci (Ripostes, 2001); Canti affilati (Franco Masoero Edizioni d’arte, 2003) e Frantoi di luce (Mavida, 2006) con inchiostri di Hervé Bordas; L’ossario del sole (Passigli editori, 2007). Nel 2005 è apparsa una cartella di foto Brace (Prova d’Artista) con Giacinto Cerone, e un libro d’artista Viaggiare (CTL) con Clemens-Tobias Lange. È uno dei fondatori del libro-rivista di poesia e arte ’a camàsce (CTL).
Tra le performances si ricordano: John Giorno e Domenico Brancale (Galleria Bonomo, Bari, 2006); Krakorna in Vie teatrali del mutamento. Artaud, Bene, Grotowski con Antonio Attisani, Marco Dotti, Carlo Sini, Paolo Ferrari.(Isolacasteatro, Milano, 2006); Frantoi di luce nera con il regista Michele Schiavino (Vetrina del fare, Salerno 2006); Nessun sole sorge senza l’uomo - suoni per una voce a corda con i Fratelli Mancuso (Sant’Arcangelo, 2007); Cataletto per Aristakisyan con il regista Artur Aryistakisyan (Potenza, 2008).

mercoledì 4 febbraio 2009

ANDREA PONSO SUL CASO ENGLARO

Andrea Ponso, poeta e filosofo, studioso di teologia, pubblica sul proprio spazio Facebook un intervento a proposito del dibattito recente sul caso Englaro, che qui ripropongo.
Aggiungo, in calce, un estratto da un intervento del 1974 di Pier Paolo Pasolini dal titolo "La Chiesa, i peni e le vagine", ora in "Scritti corsari".

Buone riflessioni,
Davide Nota

*

ACCETTARE IL VIVENTE, ACCETTARE IL MORENTE?

Accettare il vivente, la sua incarnazione: significa naturalmente accettare anche la morte e la finitezza. È quindi anche l’accettazione di una forma, di una forma-di-vita di contro alla nuda vita. Niente è politicamente più attuale: niente è più sepolto e tumulato dalla pletora di risposte fornite senza risparmio alcuno dall’attualità, che con l’attuale, in verità, non ha niente a che spartire. Ma, allora, si deve porre seriamente anche la problematica dell’accettazione non solo del vivente, ma anche di quella figura che negli ultimi anni si presenta, naturalmente inestricabilmente legata a quella del vivente, con sempre nuove denominazioni e delimitazioni, vale a dire quella del “morente”. Puntualmente ci si ripropone questo nodo apparentemente inestricabile, anche in questi giorni, dopo il vergognoso caso di Piergiorgio Welby - vergognoso per chi si ritiene cattolico e cristiano, ma anche per gli altri, per una strumentalizzazione mediatica priva di tatto e incapace di declinarne la complessità - con la stessa urgenza che si declina senza soluzione di continuità in un profluvio di risposte e di troppo semplicistiche prese di posizione. Posizioni che sono immobili, date, quindi già di per sé morte - di contro alla complessità di eventi che meriterebbero ben altro rilievo e che dovrebbero essere al centro di una politica della vita e non di una politica sulla vita: un centro che si è perso, una mediazione che non abita più le stanze dei parlamenti e dei giornali e che si gioca quindi pericolosamente altrove, visto che l’attuale sistema politico non può nemmeno più essere considerato della rappresentanza ma piuttosto di una nefasta rappresentazione del potere stesso, della sua autoreferenzialità, del suo rispecchiamento, della sua auto-fondazione assolutamente priva di rapporti con l’esistente se non in termini, appunto, di gestione del vivente e di potere sulla vita.Morte e vita si ricongiungono? In quali modalità? Se la morte si ricongiunge alla vita solo per renderla “uccidibile e insacrificabile”, come nella figura giuridica romana del bando sovrano, allora quello che ne rimane è una nuda vita, staccata dalle sue forme, dalle sue potenze/potenzialità. E in questo caso, qualsiasi tipo di “difesa” risulta sospetta, anche quella proposta dalla chiesa che pericolosamente le si avvicina, quando invece la figura incarnata di Cristo potrebbe appunto essere letta come il tentativo di unione di nuda vita e forme-di-vita, di creaturalità e potenza/possibilità, proprio a partire dallo scandalo della croce, dove il potere scatena la sua forza giuridica (di giudizio) e linearizzante pretendendo che quel corpo inchiodato sia solamente nuda biologia. “Chi vorrà salvare la propria vita la perderà”. Come ci si pone davanti a questo problema? Con quali strumenti e soprattutto con quale consapevolezza? Riusciamo davvero nell’inaudita impresa di vedere attaccato alla macchina e al respiratore artificiale il corpo scandaloso di Cristo? Lo “vorremmo ancora in vita”? Ne vorremmo disporre? Giustamente Chauvet ha scritto che “chi fa morire la mancanza di Cristo rifà di lui un cadavere”, cioè un oggetto disponibile, in nostro potere: cosa che può succedere anche con l’uomo.Mi pare che nelle recenti vicende che rendono palesi tali problematiche, e nascosto nelle strumentalizzazioni e nelle lunghe discussioni, spesso sterili, si nasconda qualcosa di centrale e poco indagato. La difesa della vita, da parte della chiesa e di certo mondo politico, non è forse, in questo caso, un palese rifiuto della morte in quanto parte fondamentale e irrinunciabile della vita? Non si applica anche in questo caso una esclusione di tipo immunitario del non-vivente dai caratteri pericolosamente tanatopolitici? O, ancora, non si riduce la morte al recinto impoverito della nuda vita? Se la vita è in mano a Dio, l’accanimento terapeutico non rischia sempre di diventare un rifiuto o una distorsione politicamente orientata della creaturalità e di quella finitezza che proprio il Creatore ci ha donato con la nascita e che siamo tenuti a rispettare e ad amare in quanto tale? È qui che si dovrebbe inserire la riflessione: una riflessione che non può non partire da una analisi, stringente e per niente inattuale, sulla tecnica. È la tecnica, la cura, che si sostituisce a Dio? non ci siamo già posti contro il Divino nel momento in cui vogliamo a tutti i costi “mantenere in vita”, disporre del vivente? Il dono della vita, credo, ci obbliga, attraverso il suo munus, anche nei confronti della morte e della finitezza, ma ci obbliga in una maniera e in un rapporto forse ancora impensati. Non si tratta di rifiutare la tecnica, si tratta piuttosto di leggerne la complessità ricongiungendola al sistema della vita e delle sue forme: essa stessa, infatti, fa parte di queste forme. Accettare un dono, mi pare, è anche questo, e non lo sappiamo più fare. Non si tratta di un rifiuto del dolore, di un rifiuto del dono della vita o delle nuove possibilità offerte dalla scienza. Forse, in casi come questo, è proprio il contrario.Le troppe risposte sono perfettamente funzionali ad un mondo che ha perso ogni capacità di ripensare i fondamenti (anche e soprattutto quelli della tecnica), che ha dimenticato che il pensiero è una pratica e non la costruzione di una ideologia o di un insieme morale di leggi, ad un mondo che ha fatto della verità e di Dio cose non più essenziali ma essenzialiste, sia in chi crede che in chi non crede. Ci sono troppe risposte, non troppe domande. E le troppe risposte sono sempre anche un modo per fare zittire la domanda, per bloccare la pratica del suo interrogativo, per scongiurare la presenza vivente che ci sta davanti, per troncare ogni rapporto, per non ascoltare la presenza concreta e incarnata che ci interroga.

Andrea Ponso

*

[...] Ed ecco l'orrore. La Carità, che è il più alto dei sentimenti evangelici, e l'unico autonomo (si può dare Carità senza Fede e Speranza: ma senza Carità, Fede e Speranza possono essere anche mostruose), viene qui degradata a pura misura pragmatica, di un qualunquismo e di un cinismo addirittura scandalosi. La Carità pare non servire a niente altro che a scoprire gli uomini nella loro più squallida e atroce nudità di creature: senza né perdonarli né capirli, dopo averli così crudelmente scoperti. Il pessimismo verso l'uomo terreno è troppo totale per consentire l'empito del perdono e della comprensione. Esso getta un'indistinta luce plumbea su tutto. E non vedo niente di meno religioso, anzi, di più ripugnante, di questo.

Pier Paolo Pasolini

martedì 3 febbraio 2009

da I MITI DEL MONDO MODERNO di MIRCEA ELIADE

Uno stralcio improvviso e denso da I miti del mondo moderno di Mircea Eliade, apparso in «Nouvelle Revue Francaise» nel 1953 e contenuto nella raccolta di testi Mythes, rêves et mystères, edita da Gallimard nel 1957 [trad. it., Miti, sogni, misteri, Lindau, Torino 2007]. In questo saggio, Eliade si chiede se il mito sia sopravvissuto nella società moderna, se sia ancora rintracciabile e in quali forme. Il discorso dello storico delle religioni rumeno è molto ampio e abbraccia più ambiti della vita quotidiana, uno di questi è quello politico. Il passo che qui di seguito riporto, non riassume tutta la complessità del saggio, è piuttosto uno spunto di riflessione su confronti e tematiche che ciclicamente ci troviamo ad affrontare (la scorsa settimana si è celebrato il Giorno della memoria); inoltre credo che possa rappresentare un tassello all’interno delle considerazioni su la «Sinistra da rifare», argomento centrale nel lavoro delle nostra rivista.

...Ben diverso è il caso del comunismo marxista. Lasciamo da parte la validità filosofica del marxismo e il suo destino storico; fermiamoci alla struttura mitica del comunismo e al senso escatologico del suo successo popolare. Qualunque cosa si pensi delle velleità scientifiche di Marx, è evidente che l’autore del Manifesto dei comunisti riprende e prolunga uno dei grandi miti escatologici del mondo asiatico-mediterraneo, cioè la funzione redentrice del Giusto (l’«eletto», l’«unto», l’«innocente», il «messaggero», oggi, il proletariato), le cui sofferenze hanno la missione di cambiare lo stato ontologico del mondo. Infatti la società senza classi di Marx, e la conseguente scomparsa delle tensioni storiche, trovano il loro più esatto precedente nel mito dell’Età dell’Oro, che, secondo molte tradizioni, caratterizza l’inizio e la fine della Storia. Marx ha arricchito questo mito venerabile di tutta un’ideologia messianica giudeo-cristiana: da una parte, il ruolo profetico e la funzione soteriologica che egli attribuisce al proletariato; dall’altra, la lotta finale fra il Bene e il Male, che si può facilmente accostare al conflitto apocalittico fra Cristo e Anticristo, seguito dalla vittoria decisiva del primo. È anche significativo che Marx riprenda a suo modo la speranza escatologica giudeo-cristiana di una fine assoluta della Storia; si separa in questo dagli altri filosofi storicisti (per esempio, Croce e Ortega y Gasset), per i quali le tensioni delle Storia sono consustanziali alla condizione umana e, quindi, non possono mai essere completamente abolite.
Paragonata alla grandezza e al vigoroso ottimismo del mito comunista, la mitologia adottata dal nazionalsocialismo appare stranamente maldestra: non soltanto a causa delle limitazioni stesse del mito razzista (come si poteva immaginare che il resto dell’Europa accettasse volontariamente di sottomettersi allo Herrenvolk?), ma soprattutto grazie al pessimismo fondamentale delle mitologia germanica. Nel suo tentativo di abolire i valori cristiani e di ritrovare le fonti spirituali della «razza», cioè del paganesimo nordico, il nazionalsocialismo ha dovuto necessariamente sforzarsi di rianimare la mitologia germanica. Nella prospettiva della psicologia del profondo, simile tentativo equivale esattamente a un invito al suicidio collettivo: infatti l’eschaton annunciato e atteso dagli antichi germani è il ragnarökkr cioè una «fine del mondo» catastrofica che include un combattimento gigantesco fra gli dèi e i demoni e termina con la morte di tutti gli dèi e di tutti gli eroi e con la regressione del mondo nel caos. È vero che dopo il ragnarökkr il mondo rinascerà rigenerato (infatti, anche gli antichi germani conoscevano la dottrina dei cicli cosmici, il mito della creazione e della distruzione periodica del mondo); tuttavia sostituire al cristianesimo la mitologia nordica significava sostituire un’escatologia ricca di promesse e di consolazioni (per il cristiano, la «fine del mondo» completa la Storia e la rigenera contemporaneamente) con un eschaton decisamente pessimistico. Tradotta in termini politici, questa sostituzione significava all’incirca: rinunciate alle vecchie storie giudeo-cristiane e risuscitate dal fondo della vostra anima la credenza dei vostri antenati; i germani; poi, preparatevi per la grande battaglia finale fra i nostri dèi e le forze demoniache; in questa battaglia apocalittica, i nostri dèi e i nostri eroi – e noi con loro – perderanno la vita, e questo sarà il ragnarökkr, ma poi un mondo nuovo nascerà. Ci si domanda come una visione così pessimistica della fine della Storia abbia potuto infiammare l’immaginazione di almeno una parte del popolo tedesco; tuttavia il fatto esiste e continua a porre problemi agli psicologi.

Mircea Eliade da Miti, sogni, misteri, Lindau, Torino 2007

Daniele De Angelis